Nonostante i notevoli aumenti nei prezzi degli alimentari, gli agricoltori si trovano ancora a fronteggiare redditi modesti e oneri significativi. Sebbene il 30% del loro reddito provenga da finanziamenti pubblici, pochi sono coloro che effettivamente ne beneficiano.
Gli agricoltori che sono scesi in protesta recentemente hanno sottolineato in modo chiaro il divario evidente tra i prezzi al dettaglio dei prodotti alimentari e quello che effettivamente viene pagato ai produttori. Le mele Golden, vendute nei supermercati a non meno di 2,10 euro al chilo, sono acquistate dai produttori a soli 29 centesimi. Anche il latte, venduto ai consumatori a un prezzo di almeno 1,30 euro, genera solo 46 centesimi al litro per gli allevatori. A causa delle conseguenze dell’influenza aviaria, il prezzo delle uova è aumentato drasticamente in un paio di anni, raggiungendo i 3 euro per confezioni da sei, ma solo una minima parte di questa somma arriva agli allevamenti, molti dei quali in Italia sono intensivi. Le zucchine, vendute dai contadini a prezzi compresi tra 1,50 e 2 euro al chilo, possono essere acquistate nei supermercati del Nord Italia anche a sei euro. Tuttavia, se questi soldi non vanno nelle tasche dei produttori, ciò solleva la domanda su chi stia guadagnando dalla differenza tra i prezzi pagati dai consumatori e quelli ricevuti dagli agricoltori.
Uno striscione esposto lungo la strada durante le proteste degli agricoltori nel Nord Italia nel gennaio del 2024. (Fonte: X)
Un intricato percorso
Secondo uno studio condotto dall’Associazione Distribuzione Moderna nel 2019, i fondi legati al settore alimentare si distribuiscono tra vari attori. Ogni 100 euro spesi dagli italiani per il cibo, il 32,8% va a remunerare fornitori di logistica, packaging e servizi, il 31,6% il personale della filiera, il 19,9% le casse statali, l’8,3% fornitori di macchinari e immobili, e l’1,2% alle banche. Appena il 5,1% contribuisce alla remunerazione della filiera agroalimentare. Questo significa che i poco più di 5 euro su 100 rimanenti devono essere suddivisi tra l’industria di trasformazione alimentare (43,1%), gli intermediari (19,6%), la distribuzione (11,8%) e la ristorazione (7,8%). Gli agricoltori, che hanno prodotto il bene alimentare, ricevono solo un misero 17,7%.
Sebbene la catena di produzione del cibo sia lunga e complessa, i primi a subire le conseguenze e a chiudere, nella maggior parte dei casi, sono proprio gli agricoltori, nonostante la loro indispensabilità. La loro rabbia, manifestata per le strade di diverse nazioni europee, ha radici in questo contesto.
Le compensazioni finanziarie all’interno della catena agroalimentare suddivise per settore. Fonte: Studio Ambrosetti
Le contestazioni di Bruxelles
Il 1° febbraio, gli agricoltori europei hanno manifestato la loro frustrazione a Bruxelles, dando fuoco a copertoni, abbattendo una statua e occupando le strade con i loro trattori nel cuore della notte. Questa protesta è seguita a settimane di blocchi, tensioni, lamentele e accuse diffuse in vari Paesi europei, in un contesto segnato da pandemia, conflitto in Ucraina e speculazioni che hanno colpito pesantemente i produttori alimentari. Il malcontento è stato indirizzato verso i governi nazionali e l’Unione europea, ma dietro la nuova povertà rurale emergono diversi fattori e attori.
Alessandro Rosso, giunto a Bruxelles con una delegazione regionale della Coldiretti, ha evidenziato il calo dei prezzi del frumento tenero da 350 euro a tonnellata nel 2022 a circa 260 euro nel 2023. Nonostante il calo dei guadagni, i costi degli input agricoli come fertilizzanti, pesticidi e macchine agricole sono aumentati almeno del 10 per cento. La Coldiretti, dopo le critiche iniziali del suo presidente Ettore Prandini che accennavano a infiltrazioni No Vax tra i manifestanti, ha poi deciso di sostenere le proteste portando migliaia di imprenditori agricoli nella capitale europea. Durante la manifestazione, gli agricoltori hanno protestato contro le regole europee, i limiti ambientali della nuova Politica Agricola Comune (PAC), l’eccessiva burocrazia e le sfide che affrontano.
A chi vanno i fondi europei
Le preoccupazioni degli agricoltori sono state condivise dalla Copa-Cogeca, il potente sindacato agricolo europeo, che ha accusato la Commissione europea di aver tagliato i sussidi e imposto regole eccessivamente orientate all’ecologia piuttosto che alla produzione. Tuttavia, altre organizzazioni hanno presentato una visione diversa, sottolineando che i fondi pubblici, che costituiscono circa il 30 per cento degli introiti degli agricoltori, tendono a concentrarsi nelle mani di poche grandi imprese e consorzi. Antonio Onorati, contadino ed esponente dell’Associazione Rurale Italiana, ha spiegato che la proposta di ridistribuire queste risorse verso i piccoli produttori e quelli delle comunità montane, avanzata dalla nuova ‘Politica Agricola Comune’, è stata ostacolata dalle potenti organizzazioni agricole.
Questa analisi è stata confermata dai dati, sia europei che italiani, come evidenziato da un rapporto del 2017 redatto dalla Rete di Informazione Contabile Agricola (Rica). In media, solo il 20 per cento delle realtà agricole, inclusi consorzi ed enti di ricerca, riesce a recuperare oltre l’80 per cento dei fondi, con picchi di concentrazione fino al 95 per cento in alcune regioni italiane. La direzione generale di contabilità dell’UE ha confermato che i sussidi europei si concentrano tra i 50 più grandi beneficiari in ogni Stato membro, sia dei fondi PAC che dei Fondi di Coesione. Ad esempio, in Italia nel 2019, ben 32 milioni di euro all’anno sono stati assegnati a un singolo beneficiario, la F.IN.A.F. – First International Association Fruit, che rappresenta oltre 9.000 agricoltori attivi nella coltivazione e commercializzazione di ortofrutta fresca e trasformata tra Francia e Italia, sotto l’egida di marchi della grande distribuzione.
Sopravvivere con un budget mensile di 700 euro
Per coloro che non hanno accesso a consistenti fondi pubblici, è possibile trovarsi con soli 700 euro al mese a fine mese, soprattutto nelle regioni come la Sardegna e la Val d’Aosta. Le regioni con i redditi agricoli più elevati sono l’Emilia-Romagna, il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, dove le aziende agricole hanno avuto successo nell’associarsi in consorzi, riuscendo a generare fatturati superiori a 100.000 euro all’anno. Tuttavia, anche in queste regioni, le difficoltà non sono mancate. Antonio Onorati, dell’Associazione Rurale Italiana, evidenzia che molti dei manifestanti rappresentano un modello agricolo industriale in crisi. Le aziende medio-grandi devono affrontare numerosi problemi e costi, ma senza consistenti risorse pubbliche, rischiano di non sopravvivere.
I debiti si accumulano rapidamente a causa delle innovazioni da introdurre, della dipendenza dai fertilizzanti chimici e degli allevamenti sempre più tecnologici ma complessi da gestire. Anche l’acquisto di sementi, spesso soggette a brevetti, e pesticidi rappresenta un onere significativo. In molti casi, entrambi gli elementi sono prodotti dalle stesse multinazionali come Bayer-Monsanto, Basf e Syngenta. In questo contesto, i piccoli agricoltori dimostrano talvolta maggiore capacità di resilienza e creatività, ma ciò non è sempre sufficiente.
I contadini, manifestando a Bruxelles davanti al Parlamento europeo, hanno abbattuto una statua per protestare contro i bassi redditi e i prezzi ingiusti. Foto di Alessia Capasso.
Spendiamo di più per ottenere prodotti di scarsa qualità
Sul tavolo dell’European Food Forum il 31 gennaio si sono riuniti rappresentanti del settore agricolo, organizzazioni non governative, consumatori e delegati delle industrie di trasformazione e conservazione, insieme a figure della distribuzione. Quest’ultima afferma di essere aperta all’ascolto e pronta all’innovazione, ma ammette le difficoltà nel cambiare i propri modelli di business. Els Bedert di EuroCommerce, l’associazione europea che rappresenta sia la grande che la piccola distribuzione, ha dichiarato: “Le buone pratiche stanno progressivamente entrando nei nostri negozi, ma è estremamente difficile pensare a nuove regole quando si è concentrati nel mantenere in piedi la propria attività”. In un contesto in cui la fretta di fare affari è un elemento debole, coloro che producono si trovano a essere privi di capacità negoziali. Il prezzo è spesso determinato dalle industrie sementiere, spesso straniere, che detengono i diritti di proprietà intellettuale sui semi.